giovedì 4 giugno 2020

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TESTO DI PEDAGOGIA: IL RAGAZZO SELVAGGIO DEL’AVEYRON

Il ragazzo selvaggio dell’Aveyron è un caso di cronaca molto noto, da cui furono tratti libri e documentari. Esso racconta la storia di un ragazzino avente circa dodici anni, ritrovato nei boschi francesi durante il 1798, dopo essere vissuto in tale luogo per tutta la vita, ad uno stato completamente isolato e selvaggio. Proprio per questa ragione risultava essere totalmente incapace di comunicare con i ritrovatori, sia in maniera verbale che non verbale.

Non si era mai visto nulla di simile e proprio per questo suscitò subito molto interesse, soprattutto tra gli studiosi membri della Societé des observateurs de l’homme, società filosofica di base naturalista. Ai loro occhi, il ragazzo appariva come la chiave di volta per comprendere la natura umana più pura e radicata, e per comprendere come il linguaggio condizioni lo sviluppo dell’essere umano. Non c’è da stupirsi per quest’occhio di riguardo: ricordiamo che era l’epoca tardo-illuminista, in cui l’interesse per lo stato di natura dell’umanità era al massimo, grazie all’influenza di Hobbes, Locke e Rousseau. Un altro elemento di grande influenza era il mito del buon selvaggio, secondo il quale l’uomo all’inizio della sua storia fosse un animale buono e pacifico, corrotto in seguito dalla civilizzazione. Ricordiamo inoltre il periodo storico, oltre che filosofico: era il periodo della colonianismo delle Americhe e dell’Africa, in dunque l’Europa iniziava ad approcciarsi alle popolazioni indigene, da loro considerate selvagge appunto. Di fatto ci si trovava davanti a quello che potenzialmente poteva essere esattamente la figura di uomo citata dai filosofi e dal mito appena citati: gli studi che su di lui potevano essere condotti, avrebbero potuto smentire o approvare quest’ultimi.

Agli studiosi fu subito chiaro che nell’approcciarsi al ragazzo, si dovesse andare incontro alle sue difficoltà di espressione in maniera inevitabile. Per questo fu inserito nell’Institut pour les sourds et muets, un istituto per ragazzi sordomuti, in cui quest’ultimi venivano condotti all’apprendimento del linguaggio.

Il giovane viene sottoposto a molteplici esami dal più illustre psichiatra dell’epoca, Philippe Pinel. Mentre egli compiva, assistito da Itard, un altro medico molto noto, le analisi fisiche sul corpo del ragazzo, notò sulla sua gola una cicatrice molto particolare. Proprio questa aiutò i medici a fare deduzioni sulla storia del bambino: all’età di quattro o cinque anni il ragazzo sarebbe stato abbandonato nella foresta, dove un mancato tentativo di tagliargli la gola lo avrebbe lasciato in vita, e fino all’età di 12 o 13 anni (quella dimostrata appunto) vive indisturbato senza nessun contatto con la civiltà.

Pinel suggerì che il ragazzo soffrisse di demenza e che fosse sordo, motivo per il quale si comporterebbe in quel modo, ma il suo compagno Itard non era per nulla d’accordo: sostiene che lo stato del ragazzo potrebbe derivare dalla sua mancata civilizzazione. Dopo una lunga discussione, Itard decide di prendersi la responsabilità di seguire il caso autonomamente. Il suo obbiettivo era quello di integrare ed istruire il ragazzo, dimostrando come non avesse alcun deficit cognitivo. Decide addirittura di dargli un nome: Victor.

Inoltre, il medico, si rese conto che il bambino non era per nulla sordo sordo: anche se si dimostrava disinteressato ai suoni che non conosceva, come le parole appunto, al contrario si dimostrava attento ai suoni noti. Gradualmente però dovette essere esposto ai suoni linguistici, a cui iniziò ad essere sensibile, in particolare al suono della lettera “o”, da cui appunto il suo nome, Victor.

Il medico documentò i suoi studi In due fondamentali testi: i Mémoires. In esse descrisse molto dettagliatamente il suo programma di lavoro e i suoi obbiettivi, che risultarono essere cinque: 1) interessare Victor alla vita sociale; 2) risvegliare la sua sensibilità nervosa; 3) estendere la sfera delle sue idee; 4) insegnargli a parlare attraverso l’imitazione; 5) far esercitare le sue facoltà intellettuali, come l’attenzione, la memoria, il giudizio e tutte le facoltà sensoriali per farle applicare a soggetti utili all’istruzione di Victor.

Nonostante i risultati positivi ottenuti nelle fasi preliminari, non si può definire l’esperimento come riuscito, in quanto Victor non imparò mai a parlare liberamente. Sostanzialmente, s può dire che le ragioni del suo fallimento risiedono nella premessa dell’esperimento stesso, secondo la quale il linguaggio, parte essenziale della natura umana, sia una caratterista genetica dell’essere umano e che possa essere attivato in ogni momento. Il caso di Victor mostra come nelle facoltà naturali dell’uomo non rientri il linguaggio che risulta essere dunque un’abilità frutto delle abitudini acquisite nel corso dell’educazione dell’uomo.

Solo in un secolo molto più recente, con psicologi come Piaget, si è cominciato a pensare che la natura dell’uomo non fosse il suo punto d’inizio, ma un processo necessario che da inizio ad un lungo processo di crescita, a cui Victor non ha partecipato in modo intero.

Quello che ha dimostrato il caso Victor è che la natura umana non può prescindere dalla cultura, dal momento che la nostra mente non riesce ad organizzare l’esperienza e a governare il suo comportamento senza la guida di sistemi simbolici. Per questo, lo studio di Victor va a contrapporsi al mito del selvaggio.