Da dove viene la singolare pretesa di rinchiudere per correggere? Con questa domanda, riusciamo già a scorgere il senso del percorso storico che Foucault ci fa fare nelle sue pagine. Infatti, partendo dall’analisi delle modalità antiche di gestione della giustizia, giungiamo a comprendere l’assurdità della struttura prigione.
Prima del ‘700 il potere aveva un modo di essere esercitato piuttosto diretto ed arbitrario: le pene venivano inflitte per mostrare il potere di chi comanda, non c’erano particolari intenti pedagogici sul condannato.
L’avvicinarsi del secolo dei lumi fa però sorgere nelle menti dei riformatori illuminati richieste di maggiore equità, di un sistema punitivo che serva a qualcosa, che abbia senso. Il senso però, è ovviamente quello della classe dominante, che ritaglia per sé uno spazio di illegalità consentito, lasciando i ceti meno abbienti in balia del potere della Norma.
In altre parole, il delinquente è colui che ha violato la norma, intesa come la regola mediana da rispettare per permettere al sistema di continuare a funzionare. Costui va rieducato, negli intenti dei riformatori, anche se in effetti la prigione ha semplicemente la funzione di contenere, di riorganizzare la delinquenza ad un livello parallelo a quello della legalità. E se si riesce a fare ciò è per il semplice motivo che l’idea della necessità del rispetto delle regole si è piano piano spostata nel corpus di preconcetti propri ad ogni persona. L’invenzione dell’anima serve anche a questo, a creare all’interno di ognuno un ‘luogo’ dal quale il potere possa dominare il corpo.
L’esistenza dell’anima non fa dimenticare tuttavia al potere la necessità di una sorveglianza attiva della parte materiale di ciascuno: il corpo viene rinchiuso in prigione. Ma oggi il potere ha cambiato obiettivo.
La struttura carceraria ideale sarebbe il Panopticon: un cerchio di celle illuminate con al centro la cabina di controllo. Questo schema riflette perfettamente i nuovi intenti del potere. Rendere i sottoposti più individuali, e quindi più controllabili, attraverso la loro piena esposizione. Il singolo deviante che commetta un’infrazione alla Norma sa che è sempre passibile d’essere condannato per questo, ricondannato magari, e questa abituazione alla perenne possibilità della condanna-punizione forma una specifica anima: l’anima è in prigione.
Attraverso la creazione di questo universale strumento di controllo sociale che è il carcere, la nascente borghesia poneva le basi per un passaggio epocale. Il popolo minuto un tempo rivendicava condizioni di vita migliori attraverso l’appropriazione di diritti abitudinari, che veniva concessa dalla classe dominante. Oggi non è più così: i diritti della classe dominante sono divenuti inviolabili e le rivendicazioni del popolino si riversano sui beni che la classe dominante stessa detiene.
Ciò che emerge dall'analisi dell'autore è che il sapere è potere. Non esiste un sapere giusto da contrapporre ad un potere ingiusto. In ogni caso il sapere è potere e viceversa. Dato che il sapere disponibile sulla piazza è un sapere ‘normalizzato’, ne deriva che il potere che ciascuno sviluppa a partire da questo sapere è un potere che non violala Norma.
Il problema sta tutto in queste due parole: sapere alternativo.
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